*Messaggio di Mons. Tommaso Caputo per 90° morte del Beato
Per una Città e una Chiesa ispirate alla fede e alla carità
Messaggio alla Comunità ecclesiale di Pompei dell’Arcivescovo Prelato e Delegato Pontificio Mons. Tommaso Caputo in occasione del novantesimo anniversario della morte del Beato Bartolo Longo. (5 ottobre 1926)
Carissimi fratelli e sorelle,
Novant’anni fa si concludeva la lunga parabola terrena del Beato Bartolo Longo (Latiano, 10 febbraio 1841 – Pompei, 5 ottobre 1926), Fondatore del santuario della Vergine del Rosario, delle opere sociali e della città di Pompei, dopo una vita consacrata alla Madonna e dedicata a Dio e al prossimo.
Suggello di tutta la sua opera furono le ultime volontà con cui volle accompagnare il tratto finale della sua esistenza, riaffermando la sua povertà, il distacco da ogni bene materiale e la sua libertà di spirito. L’occasione fu la celebrazione giubilare dell’opera pompeiana. Cinquant’anni erano trascorsi da quando, su un carro di letame, era arrivata a Valle di Pompei la venerata Immagine e Papa Pio XI volle riconoscere, insieme all’azione della divina Provvidenza, l’impegno generoso e infaticabile dell’Avvocato Commendatore Bartolo Longo che insignì di un’altra onorificenza, costituendolo Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Ecco le parole pronunciate dal Beato nell’atto del conferimento della distinzione onorifica avvenuto a Pompei, nella sala teatro dell’Istituto per i Figli dei Carcerati, alla presenza di tanti suoi amici ed estimatori e, soprattutto, dei suoi ragazzi: "Quest’oggi, in presenza di questa eletta corona di personaggi e dei miei figli carissimi di adozione, voglio fare il mio testamento, sentendo avvicinarsi l’ora estrema. Ho raccolto e profuso milioni per fondare la Basilica Pompeiana, le opere di beneficenza, la nuova città di Maria. Nulla più posseggo: sono povero. Mi restano le insegne cavalleresche, a testimonianza di benevolenza dei Sommi Pontefici: e queste pure voglio donare"
(Il Rosario e la Nuova Pompei", 1925, p. 246).
Una storia unica ed originale
Insieme con voi, desidero esprimere il rendimento di grazie e di lode a Dio per la vita e le opere di Bartolo Longo. Il Beato è stato un docile strumento nelle mani di Dio, la cui volontà è stata il faro che ne ha illuminato l’esistenza e, d’altra parte, le sue opere, sostenute in particolare dalla sua consorte, Contessa Marianna Farnararo De Fusco, hanno modificato completamente il panorama, la storia e la realtà stessa di Valle di Pompei, grazie al materno aiuto della vergine del Rosario.
Quando al cuore di una ricorrenza c’è non solo un ricordo che si rinnova, ma un orizzonte che continua ad aprirsi e a farsi vivo, è la memoria stessa, con la sua vitalità, a spingere i tempi al futuro e a tessere il filo di discorsi sempre nuovi che portano lontano.
I novant’anni dalla morte di Bartolo Longo rappresentano una grande occasione per riflettere a tutto campo sui tanti profili di una storia unica che, proprio per la sua originalità, è tutt’altro che alle nostre spalle.
Questa storia, nel suo capitolo più vasto, si chiama "Nuova Pompei", un territorio desolato e preda di ogni abbandono, diventato "città di Maria". A questa storia nessuno può mettere il punto: è ancora in atto, tutto ciò che in essa si vive e si svolge ha un punto di partenza e non d’arrivo. Essa ha un nome, un autore, Bartolo Longo, che tuttavia, come iniziatore di un’opera, attende che altri aggiungano le proprie firme.
Una città, e tanto più la Nuova Pompei del Beato non può essere costruita una volta per tutte. Non è la geometria delle sue strade, il disegno dei suoi fabbricati o il puro vasto complesso delle Opere a delinearne il carattere.
I mattoni, con i quali Bartolo Longo metteva mano alla costruzione della Nuova Pompei, erano sì fatti di cemento. Ma la pietra da sola non ha mai modellato il volto della casa comune in cui gli uomini sono chiamati a vivere i loro giorni, maturare le loro esperienze ed insieme amare, sperare, soffrire e costruire il futuro.
Più che altrove, all’ombra dei maestosi resti dell’antica città romana, ciò che occorreva era la "pietra d’angolo" di un nuovo inizio capace di restituire vita e mostrare in essa, nelle sue fibre, "tutto ciò che il cristianesimo può", come scriveva il Fondatore, nel 1925, a pagina 1 de "Il Rosario e la Nuova Pompei", illustrando i cinquant’anni della missione sociale da lui intrapresa nella Valle senza vita. Poteva, in quell’anno, tracciare un lusinghiero bilancio delle Opere – a partire dall’Orfanotrofio femminile e dall’Ospizio per i figli dei carcerati – ma ciò che interessava in primo luogo non era il censimento delle opere realizzate, quanto la loro natura, il loro significato, in vista della costruzione non di singoli edifici, ma del tessuto nuovo di una comunità che nasceva dal nulla.
Caratteristica precipua delle sue opere erano, infatti, l’originalità e l’aderenza alle esigenze del tempo e del territorio. Esse erano nate da una profonda ispirazione instillata in lui, possiamo presumere, dalla stessa Vergine che lo aveva chiamato a Valle di Pompei. Accanto al Santuario della fede, la splendida Basilica della Madonna del Rosario, visitata ogni anno da milioni di fedeli, e alla quale da ogni parte del mondo guardano con devozione uomini e donne di ogni etnia ed estrazione sociale, sentì impellente il desiderio, l’esigenza potremmo dire, di edificare il Santuario della carità. Quella corona di opere che, come un giardino di rose, ancora oggi, dopo circa 130 anni, circonda il Santuario mariano, accogliendo coloro che fanno fatica a trovare un posto nella società.
Le "pietre della città dell’uomo, l’anima della città di Dio": è stato questo il fondamento della Nuova Pompei, la rivelazione che ha innescato la più concreta delle rivoluzioni, fatta di un cambio di vita radicale che ha azzerato il vecchio e aperto, spalancato, le strade alla vita nuova di una comunità toccata fin dal nascere dal privilegio.
Custodi ed Eredi di uno straordinario dono di fede
Non riflettiamo mai abbastanza sull’unicità di Pompei, sulla singolarità della sua storia. Se la Pompei antica parla attraverso i suoi resti archeologici, quella "Nuova" parla la lingua viva di una testimonianza tutt’ora in corso, che continua a tramandarsi per generazioni e che chiama in causa in primo luogo la comunità dell’oggi.
Tutta l’Opera di Bartolo Longo è, in realtà, nelle nostre mani. Siamo custodi ed eredi di un straordinario dono di fede che, sotto i nostri occhi, per l’inarrestabile dilatare della carità, ha preso le sembianze di una città. Non poteva che essere così, perché l’amore verso il prossimo e, soprattutto, verso gli ultimi porta sempre a un approdo, non va a perdersi per strada senza sbocchi.
Le pietre della città dell’uomo, l’anima della città di Dio: non può essere che questo anche il fondamento del suo oggi e del suo futuro. Futuro del quale siamo chiamati tutti ad essere protagonisti. Ognuno per la sua parte, certamente, ma non di meno. Riflettiamo sulla nostra chiamata: laici, sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose, giovani, anziani e famiglie. Ad ognuno di noi è chiesto di rispondere, in modo pronto e convincente, alla nostra vocazione: essere costruttori della città dell’uomo ad immagine della città di Dio. Una città nella quale sia viva e vitale la fraternità universale, categoria politica per eccellenza, presente nelle idee di tanti pensatori antichi e moderni.
Fraternità che, per noi credenti, ha la sua radice nel messaggio evangelico: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando che vi amiate gli uni gli altri" (Gv 15, 12-17).
Fraternità che Gesù ha vissuto per primo, dando la sua vita per noi. Fraternità che ha voluto lasciare come dono essenziale all’umanità, pregando così prima di morire: "Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17, 21).
Rivelandoci Dio come Padre, ci ha reso tutti fratelli e ha abbattuto le mura che separano gli uguali dai diversi, gli amici dai nemici. La fraternità diventa, dunque, la nostra unica eredità, un ideale da affermare come ideale del mondo d’oggi e, in modo specifico, della nostra città, della nostra Pompei.
Una città specchio dell’anima
La "città di Maria", così come è stata modellata dalle mani e dal cuore del Beato, resta il banco di prova più autentico della fedeltà al Fondatore. Una città chiamata ad essere anche specchio dell’anima, perché è nei tratti della sua vita quotidiana che questa fedeltà si misura e si pone a confronto con una modernità che pone sfide sempre più impegnative e di fronte alle quali vengono in mente, per attualizzarle all’oggi, le parole, tenere e appassionate del Beato pronunciate alla vigilia dei cinquant’anni della missione religiosa e sociale di Pompei: "Dinanzi a questa storia, a questo poema, abbiamo il bisogno di esclamare: Basta, o buon Dio, basta. Voi ci avete misericordiosamente sopraffatti: dinanzi al poema Vostro noi sentiamo il bisogno di riflettere, di meditare, di rivivere. Uno sguardo retrospettivo – concludeva – è necessario dopo 50 anni di una meravigliosa storia. Bisogna abbracciare tutto questo panorama divino con un colpo d’insieme: Che cosa fu Valle di Pompei nel campo religioso? (…) Che cosa fu Valle di Pompei nel campo sociale? Due grandi storie che sono poi una sola storia"
("Il Rosario e la Nuova Pompei", 1924, pp. 161-162)
Siamo sopraffatti oggi, a nostra volta, non solo dal prodigio della Nuova Pompei, ma dall’attualità delle parole del Fondatore, per il quale la Pompei, uscita dalle sue mani, rappresentò la "grande emozione" di un dono del Signore che aveva messo sulla sua strada, come a scortarlo in tutto il cammino, la fede da un lato e la carità dall’altro.
A novant’anni dalla morte, abbiamo il dovere non solo di far rivivere quella grande emozione, ma di darle un senso nuovo, di trasferirla, in qualche modo, a noi perché possa aiutarci a guardare avanti, a scorgere il nuovo, ad aggiornare il nostro atteggiamento e le nostre forme di carità, secondo le esigenze di una società che non è più la stessa. Una società nella quale Bartolo Longo, come ogni altro profeta del suo tempo, stenterebbe forse a trovarsi a suo agio, ma nella quale troverebbe motivi ancora maggiori per esercitare la sua opera di carità senza tempo.
Non troverebbe certamente più, nel nostro territorio urbanizzato, al centro di un’area tra le più densamente abitate d’Europa, quella Landa di terra abbandonata che arrivò a commuoverlo per la sua estrema miseria.
Anche povertà e miseria hanno cambiato faccia nella società globalizzata dei nostri tempi e sono figlie di altri drammi che, nel frattempo, dopo le rovine della guerra e l’era dello sfruttamento delle braccia nella società industriale, hanno diversificato e ampliato l’orribile mercato di nuove schiavitù. L’elenco è lungo e doloroso e non esiste nessun posto che possa dirsi al riparo.
Non lo è neppure la "Nuova Pompei", perché essa, pur costruita con i mattoni della fede, non è un mondo a parte. Anche nella "città di Maria" è perciò presente l’insidia del malaffare e della malavita organizzata; anche qui la mancanza di lavoro annebbia il futuro di intere generazioni di giovani ai quali, in maniera sempre più sfrontata viene offerto l’ingannevole "rifugio" nei cosiddetti paradisi della droga. Non aiuta certamente una congiuntura internazionale particolarmente difficile e che esaspera le obiettive difficoltà locali. E del resto una globalizzazione distorta e senza anima porta in casa anche drammi di mondi ormai non più lontani. L’immigrazione, l’accoglienza di profughi, i tanti orfani di un mondo scosso dalle tante guerre locali.
Quali risposte avrebbe potuto dare Pompei senza la memoria viva di Bartolo Longo? Senza l’opera di un laico che ha avuto come ragione della propria vita la trasformazione di una terra di nessuno in casa accogliente di Maria?
Non troverebbe certamente più, nel nostro territorio urbanizzato, al centro di un’area tra le più densamente abitate d’Europa, quella Landa di terra abbandonata che arrivò a commuoverlo per la sua estrema miseria.
Anche povertà e miseria hanno cambiato faccia nella società globalizzata dei nostri tempi e sono figlie di altri drammi che, nel frattempo, dopo le rovine della guerra e l’era dello sfruttamento delle braccia nella società industriale, hanno diversificato e ampliato l’orribile mercato di nuove schiavitù. L’elenco è lungo e doloroso e non esiste nessun posto che possa dirsi al riparo.
Non lo è neppure la "Nuova Pompei", perché essa, pur costruita con i mattoni della fede, non è un mondo a parte. Anche nella "città di Maria" è perciò presente l’insidia del malaffare e della malavita organizzata; anche qui la mancanza di lavoro annebbia il futuro di intere generazioni di giovani ai quali, in maniera sempre più sfrontata viene offerto l’ingannevole "rifugio" nei cosiddetti paradisi della droga. Non aiuta certamente una congiuntura internazionale particolarmente difficile e che esaspera le obiettive difficoltà locali. E del resto una globalizzazione distorta e senza anima porta in casa anche drammi di mondi ormai non più lontani. L’immigrazione, l’accoglienza di profughi, i tanti orfani di un mondo scosso dalle tante guerre locali.
Quali risposte avrebbe potuto dare Pompei senza la memoria viva di Bartolo Longo? Senza l’opera di un laico che ha avuto come ragione della propria vita la trasformazione di una terra di nessuno in casa accogliente di Maria?
Nuovi interpreti e testimoni nella fedeltà al fondatore
"Valle di Pompei" è chiamata ancora oggi a dimostrare "tutto ciò che il cristianesimo può". La sfida che animò Bartolo Longo non si è conclusa ed è più attuale che mai. Ma è passata di mano, cerca oggi nuove interpreti e nuovi testimoni che, nella fedeltà al Fondatore, siano in grado di tenere sempre aperti quegli orizzonti di fede e di carità che l’hanno resa unica e grande di fronte al mondo.
Orizzonti che sono tenuti vivi dai tanti sacerdoti, religiosi, religiose e laici (operatori professionisti e volontari) che, con amore e dedizione, spendono le proprie energie fisiche, mentali e spirituali per portare avanti ed aggiornare4 le tante opere fondate da Bartolo Longo che rendono così speciale la nostra città. Centri diurni, case famiglia, centri di accoglienza per minori, diversamente abili, anziani, migranti, donne ed adolescenti in difficoltà, ex tossicodipendenti, poveri, ecc.
Realtà che, non senza difficoltà, riusciamo a mantenere vive ed attive per rispondere e non venir meno alla nostra chiamata di continuatori dell’opera del Beato Bartolo Longo.
La Chiesa di Pompei è, infatti, la prima e più diretta "erede" di una tale vocazione, che custodisce e rinnova giorno per giorno ai piedi dell’Altare della beata Vergine del Rosario. Essa non può che vedere nella ricorrenza dei novant’anni dalla morte del Beato una provvidenziale occasione per incrementare la sua opera di evangelizzazione nella carità, a servizio dei più deboli e degli emarginati, Particolarmente in quest’anno del Giubileo straordinario della Misericordia, durante il quale tutta la nostra Chiesa sente vivo, e fa suo, il messaggio e l’opera di Papa Francesco.
È un invito, dunque, a tutti noi, sacerdoti, diaconi, religiose, religiosi e laici, ad un rinnovato impegno in prima persona affinché nella nostra città possa trovare sempre più spazio la fraternità ed ogni persona si senta accolta ed amata.
La Vergine del Santo Rosario ed il Beato Bartolo Longo accolgano questi nostri propositi e li benedicano.
Pompei, 5 ottobre 2016 (Festa del Beato Bartolo Longo)
† Tommaso Caputo – Arcivescovo Prelato e Delegato Pontificio